L’ultimo viaggio dell’anno è stato indietro nel tempo.
Dopo i fasti natalizi abbiamo attraversato l’umido sentiero delle Foreste Sacre, un cammino rigenerante sotto fitti rami di aceri, faggi e castagni. Ripide rocciose, tappeti di foglie e qualche ponticello di legno sopra le acque smeraldo, fino alla grande radura.
Lassù, a due ore di cammino dall’ultimo paesello abitato, si trova la casa in pietra di una famiglia che ha scelto di vivere nel suo angolo arcano, ai confini di un mondo che non somiglia più al nostro.
Un piccolo orto e qualche animale per sussistenza. Niente energia elettrica né gas, un piccolo pannello solare e dentro casa nessun bagno, ma un grande focolare sempre acceso, una stufa per cucina e un pezzo del loro formaggio sul tavolo. Quando siamo entrati per un tè, il latte delle mucche era appena stato munto e fumava dal grande recipiente di rame.
Con Ernesto a bordo dell’asino Saba e i loro bimbi in spalla, abbiamo risalito il crinale al tramonto fino alla grande Casa delle Streghe. Un gatto nero ci aspettava sull’uscio, la luce fioca illuminava un paio di finestre e dai comignoli uscivano le spire grigie del fumo.
Mi sono voltata indietro, la luce del giorno aveva lasciato il posto alle stelle, e tornare alla macchina attraversando il bosco popolato di lupi era ormai impossibile.
Nessuno ha saputo spiegarmi cosa c’entrino le streghe con quella casa oscura. Si sa che un centinaio di anni fa è stata l’ufficio postale di un borgo abitato da molte persone, e che in seguito all’abbandono della campagna gli edifici sono crollati.
Tutti tranne quel gruzzolo di pietre intorno alla grande Casa delle Streghe, che negli anni ’70 è stato occupata da una comune di persone con l’intento di vivere lontano dal sistema.
Tornando a me, che con il buio ho un conto in sospeso, ho salito a tentoni gli scalini consumati dal tempo e dai passi, con Ernesto per mano, fino alle stanze conviviali della casa, illuminate dalla poca energia che il sole può generare nelle giornate d’inverno.
Ho attraversato un corridoio di vecchie madie con grappoli di pomodori appesi al soffitto, fino al salotto pieno di libri sistemati in ordine sugli scaffali. I bambini erano indaffarati con i loro giochi di legno e un gran brulicare di gente arrivava e partiva.
Se non fosse stato per un paio di strane zampe di gallina appese sulla porta d’ingresso, avrei definitivamente scacciato dalla testa le streghe.
Entrando in cucina mi si è aperto il cuore. Appesi al soffitto sacchi di nocciole e castagne, grappoli di pannocchie e pani poggiati sulle reti ad essiccare per cibare gli animali. Sulla stufa una pentola in pietra con i manici di rame sprigionava profumi antichi e la grande famiglia era indaffarata nei preparativi della cena.
Nel convivio della cena, tra le chiacchiere attorno al grande tavolo di ciliegio, ho compreso che quello che stavo ricevendo era più di quello che avrei potuto lasciare. Perché chi fa queste scelte ha avuto il coraggio di guardare lontano, oltre i confini delle certezze.
Ho lavato i piatti con la cenere e fatto pipì sotto le stelle mentre una coppia di daini mi guardava stranita. Poi mi sono infilata sotto le coperte fra le braccia dei miei tesori, nella stanza di qualcuno che non ho capito di fosse. Ho intuito che dormiva nel letto vicino al nostro dal rumore del suo respiro.
E quando il mondo si è spento (perché le luci si erano esaurite da un pezzo) ho pensato che tutto quello non faceva per me, che volevo che arrivasse il giorno, che ho sempre temuto le streghe ma che in quel momento, stranamente, non ne avevo nessuna paura.
Quando è arrivata l’alba la stavo aspettando da un pezzo.
Siamo ripartiti dopo aver soffiato bolle di sapone insieme al vento.
E mentre questo anno intenso si sta spegnendo, ripenso a quel sentiero. Eravamo spogli del superfluo, su un cammino impervio ma bellissimo. La notte è stata buia ma piena di stelle, e con le nostre paure ci abbiamo fatto i conti.